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 DOCUMENTO DEL

CONSIGLIO ITALIANO DELLE SCIENZE SOCIALI

Roma, Febbraio 2004

 

INDICE

PREMESSA

Parte I, ORIZZONTI MUTATI NELLE SCIENZE SOCIALI (Paola Di Cori, Università di Urbino)


Parte II, CHE COSA È SUCCESSO IN QUESTI ANNI NELL’UNIVERSITÀ E NELLA SCUOLA SECONDARIA:

1. L’evoluzione delle scienze sociali nelle Università italiane (Alessandro Cavalli, Università di Pavia)

2. Le scienze sociali nella scuola secondaria (Lucia Marchetti, Liceo Classico “L. Ariosto” Ferrara)

 

PREMESSA

Il Consiglio Italiano delle Scienze Sociali, a distanza di circa 25 anni dalla pubblicazione del testo di AaVv, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, (Einaudi, Torino 1977) ha ritenuto opportuno  rilanciare la tematica,  costituendo una Commissione di Lavoro (composta da Annamaria Ajello, Alessandro Cavalli, Paola Di Cori, Lucia Marchetti, Roberto Moscati,  Anna Sgherri, Amelia Stancanelli e coordinata da Clotilde Pontecorvo), che ha effettuato due riunioni (il 28-11.2003 e l’8. 02. 04) e che, sulla base di una articolata discussione con presentazione di materiali preparatori, ha deciso di stendere il documento che segue, con l’intento di farlo circolare largamente nel mondo della scuola e della didattica delle scienze sociali. Tra i documenti preparatori segnaliamo la ricerca di Sergio Pagani, Insegnamento delle scienze sociali nella scuola secondaria di alcuni paesi europei, consultabile nel sito: www.manzoniweb.it.

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Parte I

ORIZZONTI MUTATI NELLE SCIENZE SOCIALI

Paola Di Cori, Università di Urbino

 

1. Numi tutelari e nuovi riferimenti

Pur nei limiti di una estrema sinteticità, vorrei cercare di mettere in evidenza quali sono i temi e le preoccupazioni che caratterizzano la riflessione attuale su scuola e scienze sociali, rispetto a quelle contenute nelle pubblicazioni su questo argomento sulle quali siamo stati invitati a discutere, uscite rispettivamente nel 1977 e 1978 [1]. Mi soffermo in particolare su due aspetti: 1) i cambiamenti nei referenti teorico-metodologici, e 2) i nuovi significati che sono intervenuti a modificare la definizione stessa di scienze sociali, se e in che modo queste ultime si distinguono da altri saperi e scienze.

Un elemento che salta agli occhi anche a una lettura superficiale, è la diversità di riferimenti, e aggiungerei anche, di umore che caratterizza i testi di allora. Pur essendo assai critici e problematici, i volumi pubblicati alla fine degli anni Settanta sono in realtà percorsi da un tono generale indiscutibilmente propositivo, promettente e nell'insieme ottimista, ben diverso da quello assai più preoccupato e incerto che purtroppo pervade il momento attuale. Erano inoltre stati concepiti (come alcuni autori non mancano di sottolineare) all'ombra di alcuni numi (e nomi) tutelari: quelli di Marx, Weber, Parsons. Se il nome di Parsons è ormai del tutto scomparso, e quello di Marx è stato abbondantemente rivisitato, trasformato e anche stravolto, è soprattutto il secondo, il più 'disincantato' dei tre, a rimanere come riferimento valido anche per l'oggi.

Le questioni chiave di allora, coerentemente con quei numi, riguardavano principalmente contesti e strutture socio-politico-economiche. Del tutto trascurato, se si pensa al ruolo che avrebbero ricoperto di lì a poco, ogni riferimento alla rivoluzione prodotta dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione, divenuto essenziale elemento costitutivo per identificare la società contemporanea. Ancora troppo poco era inoltre lo spazio riservato alla 'cultura' - intesa nel più ampio senso che a questo termine, accanto ai successivi sviluppi dell'antropologia, hanno contribuito a dare soprattutto i "cultural studies" inglesi - e che è attualmente al centro degli interessi di molti studiosi e docenti di scienze sociali.[2] Come conseguenza, quasi assenti erano anche le preoccupazioni relative alle identità sessuali, religiose, etniche.

Che siano questi i punti che maggiormente contraddistinguono la società in cui viviamo, e quindi le aree di studio relative, mi sembra non possa esser messo in discussione. E di conseguenza, se dovessi indicare - a titolo puramente personale - alcuni dei testi (e dei nomi) che negli ultimi trent'anni, e in particolare nel decennio trascorso,  sono diventati riferimenti importanti - oltre e al di là, (in qualche caso accanto a Marx, Weber e Parsons - potrei elencare alcuni titoli che riflettono meglio e più di altri quali siano i temi divenuti cruciali dagli anni '90 in avanti, e riguardanti: la povertà e l'infelicità diffusa, presente oggi non solo nel cosiddetto terzo mondo, ma anche in occidente (si veda a questo proposito la fondamentale inchiesta coordinata da Pierre Bourdieu dal titolo emblematico La misére du monde (1993), in Italia passata del tutto sotto silenzio; le caratteristiche della globalizzazione, espressa dai diversi libri pubblicati da Zygmunt Bauman dopo l'89, tra i quali mi limito a ricordare Modernità e olocausto (1989) e Modernità liquida (1998), oltre a quelli di Appadurai Modernity at large (tradotto in italiano con il titolo Modernità in polvere, 1996) e di Saskia Sassen, autrice di ricerche sulla vita urbana nei grandi agglomerati del primo e del terzo mondo Le città globali (1991) e Globalizzati e scontenti (1998); la informatizzazione della società come emerge dal lavoro di Manuel Castells La nascita della società in rete (2002); la crisi dell'ecosistema, analizzata da vari studi di Vandana Shiva a partire da Monoculture della mente (1995); l'accento sulla rivoluzione nell'organizzazione dei saperi e sulle nuove esigenze formative del secondo millennio come espresso dal libro La testa ben fatta di Edgar Morin (1999). A questi aggiungerei almeno un altro titolo - Soggetti nomadi di Rosi Braidotti - emblematico di quell'immensa attività di interrogazione riguardante le identità sessuali e le differenze di genere, che da Luce Irigaray a Luisa Muraro e a Judith Butler, a partire dalla metà degli anni '70 ha rivoluzionato l'orizzonte di vita e di attività intellettuale di tante studiose di scienze - sociali, umane, o esatte che siano.

Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del nuovo millennio, ci dicono questi testi, non più scritti da figure tutelari e tuttavia ottimi strumenti di riflessione sul presente, c'è stata l'informatizzazione del mondo, l'affermazione della società globale con la ridistribuzione iniqua delle ricchezze e il crescente impoverimento di zone sempre più ampie del pianeta, l'emergenza ecologica; e insieme anche una crescente attenzione per la costruzione delle soggettività e l'esigenza di provvedere con strumenti adeguati a bisogni formativi ormai profondamente mutati. È su quest'ultimo punto che il testo del 1977 - Scienze sociali e riforma della scuola secondaria - si rivela ancora un buon titolo di riferimento sul tema.

2. Scienze sociali e/o umane?

Volendo telegraficamente suggerire alcuni grandi cambiamenti di prospettiva per le scienze sociali dagli anni ’70 a oggi, tra le caratteristiche che mi sembrano importanti porrei al primo posto lo scambio e sovrapposizione avvenuta tra scienze "sociali” e scienze "umane”.  Per dirla in soldoni: tra le une e le altre lo scambio e l'affinità di obiettivi e di metodologie utilizzate è diventato così frequente negli ultimi decenni, da avere confuso definitivamente i confini esistenti tra le due.

Sempre più spesso, interessi, temi, finalità che nel corso degli anni ’70 erano stati caratteristici delle scienze sociali, nel passaggio al decennio successivo cambiano direzione. Questo è molto evidente soprattutto per la storia. Fare storia, per tutti gli anni ’60 e ’70 significherà soprattutto misurarsi e allearsi, prendere a prestito categorie e metodologie, da discipline come l'economia, la geografia e l'antropologia (in Francia tutte e tre queste discipline; in Inghilterra soprattutto l’economia, sia per storici di origini marxiste che per quelli di ascendenza fabiana e laburista). Il che, ragionando in termini di insegnamento di queste materie nelle scuole, significherà una accentuazione degli aspetti materiali dell’organizzazione sociale, e una grande attenzione per la vita quotidiana – vale a dire un declino del vecchio modello storicista a favore di una affermazione nei confronti della contemporaneità, e del presente.

Questa tendenza si rovescia nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80, soprattutto in ambito anglofono, dove alla spinta verso le scienze sociali (economia, sociologia, diritto) dei decenni precedenti, si sostituisce un mutamento di direzione. La novità è ora l'emergere di una tendenza a riavvicinarsi alle cosiddette scienze umane: la letteratura, la filosofia, i saperi relativi alla comunicazione (linguistica, semiotica, media), le arti visive. È nel corso degli anni Ottanta, a mio avviso, ma la questione merita di essere approfondita ulteriormente, che si produce quello slittamento / sovrapposizione / scambio di significato tra 'scienze sociali' e 'scienze umane'. Sempre più spesso, infatti, sociologia e antropologia mutano aspetto, sembrano 'de-socializzarsi' per subire un processo di 'umanizzazione'. Così infatti viene esplicitamente sottolineato da quello che per il senso comune dovrebbe essere uno strumento didattico per le  scienze sociali **(a scriverlo sono infatti affermati studiosi di queste ultime) e che invece è pubblicato - dall'editore Laterza nel 1985 - con il titolo inequivocabile di Manuale di scienze umane, suddiviso in tre sezioni dedicate all'antropologia, psicologia e sociologia, e scritte rispettivamente da Bernardo Bernardi, Luciano Mecacci e Franco Ferrarotti. Così è anche per un manuale curato da due antropologhe, Mila Busoni e Paola Falteri.

L'enfasi su 'umano' in sostituzione di 'sociale' è il segno di una situazione in cui si sancisce il definitivo superamento del marxismo e delle interpretazioni più visibilmente marxisteggianti, a favore di una visione dove all'attenzione per le strutture economiche e per le stratificazioni sociali, subentrano le preoccupazioni per ciò che è 'umano' - sia in senso biologico (tecnologie riproduttive, epidemie, ma anche immaginario cyborg, ecc.) sia in quello politico (diritti civili, movimenti dei sans papiers, ecc.), e storico (si introduce il crimine contro l'umanità nel caso dei processi a criminali nazisti, o nelle più recenti guerre nelle aree della ex Yugoslavia).

All’assimilazione e scambio dei termini si accompagna un cambiamento nelle alleanze disciplinari, con l’emergere di nuove gerarchie di saperi e l’inarrestabile fortuna di quelli dedicati alla comunicazione (linguistica, semiotica, media, arti visive), accanto alla filosofia e alla letteratura.

3. Ascesa e declino dei concetti

Dal punto di vista epistemologico, in questi anni – il passaggio tra anni ’70 e ’80 – si assiste alla affermazione dei concetti come strumento essenziale di organizzazione della conoscenza e della sua trasmissibilità. (Ricordo qui una importante messa a punto sul tema nei contributi di Clotilde Pontecorvo dei primi anni '80).[3] Questo fenomeno è riconoscibile un po' in tutte le discipline; la tensione nei confronti della individuazione dei concetti fondamentali costituisce certamente uno dei tratti caratterizzanti del crescente bisogno di affermare nuove identità scientifiche. Quelli che da un punto di vista disciplinare e di apprendimento si chiamano concetti, dal punto di vista culturale più ampio si declinano come parole-chiave e categorie portanti. Spesso infatti si parla indifferentemente di concetti, di parole-chiave e di categorie come se si trattasse di termini scambiabili. Con gli anni Novanta ha inizio la proliferazione, ormai diffusa a livello quasi epidemiale, di dizionari, lessici, enciclopedie - strumenti che spiegano, ma soprattutto che si sforzano per definire parole sempre meno definibili; la corsa per 'fermare' i significati di una realtà che sembra sfuggire a velocità inarrestabile diventa uno dei fenomeni più cospicui dell'ultimo decennio.

Il momento alto di questa tendenza nella seconda metà degli anni Settanta è dato dalla struttura e indice della “Enciclopedia Einaudi”, nella quale ormai svanita ogni illusione di attribuire un significato univoco alle parole, la parte del leone la fanno proprio i concetti, o meglio i ‘pacchetti di concetti’. Il caso dell’Enciclopedia Einaudi è interessante perché in essa, più e meglio che in tanti saggi interpretativi degli umori del tempo (come non ricordare almeno l'influente raccolta pubblicata da Einaudi nel 1979 e intitolata per l'appunto Crisi della ragione?)[4], si esprime in modo paradigmatico la tensione verso una ormai impossibile sistematizzazione dei saperi. Quest'ultima è strettamente collegata all'ambizione di poter metter mano alla scrittura di una nuova grammatica dei saperi il cui alfabeto è costituito dai concetti. Al tempo stesso, l’idea originale dell’Enciclopedia, evidenziata dalla immagine ovoidale - il "grafo", la rete entro la quale i concetti sono sì sistemati ma soprattutto raggruppati entro confini permeabili e mutevoli, che possono e devono essere attraversati di continuo – è anche quella di affermare la condizione caduca di ogni tentativo di fornire definizioni immutabili: lo scopo dell'Enciclopedia non tende, come quello settecentesco di Diderot e d'Alembert, a mostrare le meraviglie del progresso umano e scientifico, né tanto meno serve per irrigidire le conoscenze acquisite, ma al contrario è stato concepito per evidenziare quanto queste ultime siano ormai sempre più mutabili, e quindi transitorie; diciamo pure: squisitamente ‘storiche’.

Nel giro di poco tempo, quella che sembrava un punto d’arrivo - l'individuazione di strumenti cognitivi rassicuranti ed efficaci - subirà un ridimensionamento all'insegna del più puro spirito 'disincantato', grazie a due contributi importanti pubblicati nel corso degli anni ’80 – il saggio di Clifford Geertz, “Blurred genres” (generi confusi) del 1980, [5] e l’idea dei “concetti nomadi” avanzata in una importante raccolta curata nel 1986 da Isabelle Stengers con il titolo, “Da una scienza all’altra. Concetti nomadi”,[6] nella quale un gruppo di scienziati e di 'umanisti' si interroga su cosa avviene di alcune concettualizzazioni una volta che esse passano da una scienza cosiddetta dura a una morbida, e viceversa. Era un po’ anche questo l’obiettivo di Geertz, il quale nel suo saggio sottolineava soprattutto il fatto che ormai eravamo arrivati a una vera e propria erosione delle barriere disciplinari.

Scrive Stengers nella introduzione al volume sopra citato: "Abbiamo… a che fare con un campo in movimento, instabile, elaborato dagli stessi attori che è chiamato a definire, a sua volta ridefinito continuamente dalle operazioni che vi vengono tentate, siano queste vincenti o fallimentari." (p.10). Con queste parole, Stengers sottolinea con forza: 1) il ruolo chiave delle pratiche nella definizione delle scienze; 2) la presenza degli operatori, vale a dire l'importanza essenziale della soggettività nella costruzione delle scienze.

Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta; un decennio nel quale l'attenzione nei confronti della soggettività e dell'identità raggiunge il suo apice - valga per tutti la messa a punto della categoria di 'genere' (nel senso di gender) nel 1986 da parte della storica Joan Scott, che attraversa tutte le aree e che avvia nelle scienze sociali il dibattito sulle identità sessuali ancora così presente nelle nostre pratiche e nei nostri studi.[7] A questa enfasi sulla soggettività farà seguito nel decennio successivo l'interesse intorno al concetto e area della "cultura", su cui per mancanza di spazio non posso qui soffermarmi. [8] Ed è così, forti soprattutto dei nostri limiti, esitanti, disincantati/e, ma ancora dotati di una robusta curiosità, che entriamo nel terzo millennio.

Come riassumere in poche battute conclusive quanto è accaduto nell’ultimo decennio? Penso in particolare almeno a due fenomeni che, per così dire, stanno sotto gli occhi di tutti.

Da un lato, anziché sfumare, la tensione verso la creazione di nuovi concetti, la messa a punto di mappature sempre più complesse delle conoscenze si è accentuata, dando vita all’attuale proliferazione di specialismi, e a un inarrestabile processo di esaltazione della disciplinarità delle conoscenze. Questo è specialmente evidente in un paese come l’Italia, dove accanto alla scarsa tradizione e dimestichezza nei confronti di pratiche pluri- e inter- disciplinari, si aggiunge una sviluppatissima ansia di ottenere conferme sul piano scientifico, troppo spesso raggiunte attraverso una esasperata ricerca di regole e ordine, di costruzione di 'gabbie' per ingabbiare i saperi che sfuggono. L'ossessione concettuale e la pericolosità della deriva ossessiva è evidente (ahinoi) nella fortuna di cui ancora godono le 'mappe concettuali' nell'ambito della didattica scolastica, in particolare della storia.

Dall’altro lato, il processo di nomadismo concettuale è diventato quasi inarrestabile, e con esso sono anche proliferate le commistioni, le mescolanze tra aree di sapere anche molto distanti per origine e obiettivi, dando luogo alla nascita di nuove conformazioni. Una conferma in proposito è data da alcuni lavori che vanno in questa direzione, importanti per le scienze sociali e/o umane che si voglia (a mio avviso ogni ulteriore tentativo di separarle e distinguerle è destinato a fallimento e poco utile); mi riferisco allo studio del sociologo nordamericano Andrew Abbott, Chaos of Disciplines, pubblicato nel 2000,[9] e al volume di una studiosa di narratologia e semiotica, l'olandese Mieke Bal, Travelling Concepts in the humanities. A rough guide, del 2002.[10]

Anche se è inevitabile avviarsi verso un progressivo indebolimento degli steccati tra quelle che ormai non sono più né scienze né aree di conoscenza ben definite, ma solo vuote etichette, percorrere una strada non disciplinare è comunque assai difficile nel nostro paese.

I rischi sono infatti assai alti, come dimostrano le vicende delle aree di cui mi occupo da molti anni - gli studi di genere e gli studi culturali. Se si volesse capire quale avvenire possano avere questi studi in Italia, rispetto alle loro terre d’origine – rispettivamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra - basti pensare che nel nostro paese riescono a sopravvivere e magari anche a svilupparsi, ottenendo qualche interessante risultato solo ed esclusivamente se riescono a essere ‘inglobati’ e inseriti all’interno di qualche disciplina o specialità disciplinare. È così forte nel nostro paese la resistenza opposta alle mésalliances dalle discipline - una opposizione che si carica di molti significati e vantaggi 'pratici' (conferme professionali, promozioni, carriere, influenza in campo editoriale) - che soltanto così le aree ibride ma soprattutto quelle di nuova o recente provenienza, riescono a esistere. Dovendo pensare a qualche maniera per spezzare una simile costrizione, mi viene da dire che le scuole, i licei dove si insegnano scienze sociali (e insieme naturalmente a quelle umane ed esatte), sono dei luoghi molto adatti per sperimentare forme di diffusione di conoscenze appartenenti ad aree ormai disciplinarmente ibride; molti moduli sono da anni di fatto concepiti così. Occorre infatti capire che siamo già ben oltre alle schermaglie su discipline, etichette e materie, prive ormai di ogni significato; poiché, come giustamente sottolinea Immanuel Wallerstein, uno studioso che da anni proclama la necessità di trasformare radicalmente il modo di concepire le scienze sociali: il compito più urgente è oggi quello di "aprire" le scienze sociali, abituandoci a considerare le discipline, per parafrasare il titolo di una sua recente conferenza, come entità problematiche e dal significato altamente incerto.[11]

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Parte II

CHE COSA È SUCCESSO IN QUESTI ANNI NELL’UNIVERSITÀ E NELLA SCUOLA SECONDARIA

 

1. L’evoluzione delle scienze sociali nelle Università italiane
Alessandro Cavalli, Università di Pavia

Salvo economia e diritto, che possono vantare antiche tradizioni nella cultura italiana, le altre scienze sociali non hanno avuto vita facile nel nostro paese. Ciò vale in particolare per antropologia e sociologia il cui ingresso nell’orizzonte delle discipline insegnate nelle università è avvenuto con più di mezzo secolo di ritardo rispetto, ad esempio, a Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. All’antropologia ha nociuto la relativa brevità dell’esperienza coloniale italiana che non ha consentito di stabilire su basi consolidate rapporti con paesi e culture extra-europee. Alla sociologia ha nociuto, da un lato, l’esperienza del regime fascista, che ha interrotto i promettenti sviluppi delle scuole positiviste del primo Novecento, e, dall’altro lato, la sostanziale ostilità delle tradizioni nazionali dello storicismo, sia nella versione idealistica-crociana, sia nella versione del materialismo dialettico di stampo marxista.

Lo sviluppo interrotto e il decollo ritardato spiegano in larga misura l’accelerata rincorsa a recuperare il tempo perduto e il ricorso a modelli  provenienti per lo più dal Nord America nei primi decenni del secondo dopoguerra.

Nella fase iniziale degli anni ’60 e ’70 chi praticava le scienze sociali aveva in genere ricevuto una formazione in altri settori disciplinari, in campo filosofico, economico o giuridico. Questo garantiva una forte apertura interdisciplinare, la capacità di lavorare in territori di confine e di utilizzare un ampio repertorio di strumenti metodologici, anche se ha all’inizio frenato lo sviluppo di una specifica professionalità disciplinare.

Successivamente, si è assistito a due processi: il consolidamento istituzionale delle discipline, la crescita quantitativa degli insegnamenti e delle “specializzazioni”. All’entusiasmo dei pionieri è subentrato un orientamento più metodico, la formazione si è fatta più specifica, si sono moltiplicati i campi di ricerca all’interno delle stesse discipline. Con la crescita della professionalizzazione è cresciuta anche la separazione tra le discipline e la frammentazione al loro interno. La dimensione tecnico-specialistica delle scienze sociali risulta prevalere a scapito della dimensione in senso lato culturale-intellettuale. Questa tendenza non è inevitabile; non è affatto scontato che la specializzazione spinta debba andare a discapito della capacità di muoversi in campi e con prospettive di indagine diverse. Molto dipende da come sono congeniati i percorsi di formazione dove non è affatto escluso che si possano combinare armonicamente le esigenze di un’accentuata specializzazione con l’esigenza di mantenere sufficientemente aperta l’angolatura dalla quale si osserva la realtà.

Non bisogna dimenticare però che questi processi ad un tempo di espansione e di specializzazione sono stati messi in moto, in un certo senso “trainati”, da una forte domanda da parte dei giovani che si indirizzavano verso gli studi superiori; sono state soprattutto le facoltà di scienze politiche e di scienze della formazione (ex-facoltà di Magistero) ad ospitare un numero crescente di corsi di laurea in “sociologia” e, più recentemente, in “scienze della comunicazione”. Anche la “psicologia” ha avuto un’espansione notevolissima, anch’essa trainata da una domanda studentesca assai vivace.

In parte questa espansione delle scienze sociali o delle scienze umane (sulla loro attuale intercambiabilità, si veda il contribuito di Di Cori che precede) è imputabile alla crescita della domanda di competenze professionali ad esse connesse da parte delle organizzazioni pubbliche e private. Si pensi al settore del lavoro e dell’organizzazione, della sanità, dell’assistenza, del welfare, oltre al settore della comunicazione.  Ma vi sono molti segnali che lasciano pensare che l’espansione sia andata ben al di là della domanda di competenze professionali. A parte coloro che hanno scelto questi corsi di studi perché ritenuti meno impegnativi, molti giovani si sono orientati nell’istruzione superiore verso le scienze sociali e umane non tanto nella speranza di una futura adeguata collocazione lavorativa, quanto piuttosto per soddisfare un bisogno di orientarsi nella realtà dei rapporti umani e nel mondo contemporaneo, bisogno che, né la famiglia, né la scuola, sono state in grado di soddisfare adeguatamente. Poiché il finanziamento degli atenei è largamente calibrato sul numero degli studenti iscritti, le varie università si sono messe in competizione per intercettare questa domanda. È in un certo senso paradossale che il “successo” (in termini di espansione quantitativa degli insegnamenti) delle scienze sociali sia dovuto almeno in parte a una domanda di orientamento e di sapere che queste stesse discipline (nei loro sviluppi iper-specialistici) non sono in grado di soddisfare.

È ragionevole ritenere che questa domanda non dovrebbe aspettare l’istruzione superiore per essere soddisfatta, ma dovrebbe trovare un’offerta corrispondente a livello di istruzione secondaria. In altri termini, l’assenza nella scuola secondaria di occasioni di apprendimento capaci di orientare nella lettura della realtà sociale contemporanea e nelle scelte di studio e di lavoro ha finito per scaricare sull’istruzione superiore una domanda che a quel livello non può trovare adeguata risposta.

Riflettere sulle esperienze di insegnamento condotte nelle sperimentazioni dei licei delle scienze sociali potrebbe essere assai utile per capire che tipo di domanda di conoscenza è presente e come è possibile farvi fronte e orientarla. Le società della tarda modernità sono complesse e le scienze sociali possono essere una guida per districarsi in questa complessità. Le finalità del loro insegnamento devono infatti essere orientate a trasmettere l’idea che la realtà che ci circonda non è soltanto interpretabile in base a categorie ideologico-politiche, ma può essere oggetto di indagine scientificamente controllata. Le scienze sociali non possono dare certezze assolute, ma solo strumenti per muoverci ragionevolmente in un mondo di “incertezze”.

 

2. Le scienze sociali nella scuola secondaria
Lucia Marchetti, Liceo Classico “L. Ariosto” Ferrara

Le ipotesi contenute nel libro AAVV, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, Einaudi 1977, erano quanto mai ottimistiche. Nella quarta di copertina si diceva “il volume arriva a toccare i nodi più scottanti della riforma, oggi finalmente pervenuta al dibattito parlamentare…”. 

L’idea di fondo era che la scuola italiana, tra le molte carenze della formazione, presentasse quella di “una conoscenza sistematica della realtà sociale”. E si proponeva, accanto alle altre aree disciplinari, una presenza autonoma delle scienze sociali, “le uniche in grado di offrire una base adeguata per l’analisi e la comprensione del mondo contemporaneo” (p.18). Le scienze sociali venivano proposte per blocchi tematico-problematici costruiti dall’integrazione fra i diversi saperi disciplinari, come area comune per tutti gli indirizzi di studio. Poi le cose sono andate in modo diverso e le scienze sociali sono entrate nella scuola come saperi di indirizzo, distintivi di un corso di studi specifico, mentre rimanevano il Diritto e l’Economia come discipline di base affidate prevalentemente a laureati in giurisprudenza.

A distanza di 25 anni molte idee di fondo del testo sembrano ancora attuali e hanno costituito punto di riferimento per i documenti nazionali e per i seminari che sono stati organizzati dalle scuole-polo negli ultimi quattro anni in diverse parti del paese.

Questa linea, che vedeva le scienze sociali nel senso delineato dal testo del ’77, pare oggi un po’ offuscata. Ritorna in più luoghi l’incertezza sulla autonomia di queste discipline o sulla loro scientificità, oppure si ritorna a riproporre la discriminante sulla pedagogia, come se la questione epistemologica si misurasse su questo e, secondo alcuni, la ridefinizione dell’indirizzo in ‘scienze umane’ potrebbe accogliere tale piegatura. In realtà il contesto culturale del dibattito è ben più ampio e più alto. (Si veda al proposito il contributo di Di Cori).

D’altra parte va anche riconosciuto che in molte scuole non è avvenuta la necessaria riflessione sugli statuti disciplinari e sull’epistemologia delle scienze sociali, ma soprattutto sull’asse interpretativo del nuovo indirizzo. Si tratta di processi lunghi e lenti, come si diceva sopra, tuttavia va sottolineato che tali processi avanzano se c’è un contesto di riferimento che li orienti e li accolga. In caso contrario si genera disorientamento, babele e regressione. E questo pare essere il momento attuale. Molte scuole chiedono che fare, la riflessione è ferma e si è interrotto il dialogo tra centro e periferia. Solo pochi istituti hanno ancora la forza di raccordarsi e soprattutto di ragionare in termini generali, mentre questo sarebbe l’orizzonte da preferire rispetto al rinchiudersi nel proprio particulare.

I punti forti e le esperienze emblematiche: un modello  di sperimentazione

Trent’anni circa di sperimentazione consentono di ricavare alcune idee forti che ormai sono sufficientemente validate per diventare un possibile modello di innovazione.

Il processo è più chiaro nel caso delle scienze sociali perché qui si agiva in un campo inesplorato e si era costretti a inventare e costruire un curricolo quasi dal nulla. In questo senso il protagonismo degli insegnanti è stata la condizione iniziale necessaria, anche se non sufficiente.

Il protagonismo dei docenti
A partire dal 1974  i Decreti Delegati offrono alle scuole la possibilità di avviare un indirizzo di studi denominato Scienze umane e sociali e affidano al Collegio dei docenti e, in particolare, ai docenti delle discipline specifiche, il compito e la responsabilità di progettare un curricolo, scandito in un biennio e in un triennio, con un’idea di profilo complessivo e di gradualità formativa. Alcune scuole di punta della sperimentazione si misurano su distribuzione oraria, su discipline e temi rilevanti, e si confrontano nell’ambito di incontri nazionali organizzati dal Ministero.
Sono queste occasioni formative importanti per i docenti che sono chiamati a prendere decisioni su materie che fino ad allora erano state di pertinenza del Ministero o di docenti universitari per lo più lontani dalle aule scolastiche. Si verifica per la prima volta, con la sperimentazione, la felice condizione del professionista riflessivo che prova e riflette sugli esiti dell’azione. E per le scienze sociali questa fu una fase assai fertile. In seguito il notevole aumento di scuole che avviavano una sperimentazione nelle scienze sociali ha complicato le possibilità di un confronto e ha richiesto una diversa organizzazione. 

Accompagnamento-monitoraggio: assunzione di responsabilità da parte degli organismi centrali
Dopo la fase ‘eroica’ che riguardava poche scuole sperimentali, anche a causa del mancato realizzarsi della riforma, molti istituti avviano corsi di scienze sociali, spesso senza la necessaria riflessione ed elaborazione. Il ministero organizza seminari in diversi punti del paese per sostenere più da vicino le scuole e, in seguito, finanzia sei scuole-polo.
Nei casi migliori si costituiscono gruppi di docenti che mantengono i contatti nel tempo, si scambiano materiali e idee su parti del curricolo e, periodicamente, fanno il punto su aspetti particolari: il rapporto tra curricolo e progettazione, le scienze sociali nel biennio, il rapporto tra il diritto e l’economia e la storia, l’insegnamento integrato delle scienze sociali e il ruolo del Consiglio di classe, il profilo in uscita, lo stage formativo, il ruolo dell’antropologia culturale, l’esame di stato, il rapporto fra saperi e modelli di apprendimento. Da questa collaborazione nasce un sito web dei licei delle scienze sociali che raccoglie contributi di scuole da tutte le parti d’Italia e ha sede a Suzzara (MN) presso l’istituto ‘Manzoni’  (www.manzoniweb.it).

Confronto tra scuola e università: un modello di collaborazione
Un elemento forte che questa sperimentazione produce e che può essere assunto a modello, è rappresentato dal confronto fra docenti della scuola secondaria e docenti universitari, sollecitato dal Consiglio Italiano delle Scienze Sociali e promosso dal Ministero nel 1999. Oltre al documento del Gruppo di lavoro nazionale (Febbraio 2000) si realizzano numerosi incontri tra docenti delle scienze sociali e  universitari sugli assi fondanti dell’indirizzo e, in particolare, sulla antropologia culturale che entra nell’indirizzo di scienze sociali come disciplina, ma soprattutto come asse interpretativo dell’intero curricolo, assieme alla storia. In Italia non abbiamo altri esempi simili di collaborazione fra università e scuola sul curricolo di scuola secondaria; li abbiamo su singole discipline, ma non sulla progettazione di un percorso quinquennale, scandito tra biennio e triennio, organizzato su saperi integrati e su un’alternanza fra studio ed esperienze di osservazione della realtà esterna, ripensato in modo profondo nella didattica.Il confronto periodico fra scuola e università, in una forma di arricchimento reciproco e di aiuto non giudicante, è sicuramente uno dei punti forti di questa  esperienza.

La progettazione integrata: un modello innovativo di lavoro tra docenti
L’oggetto di studio dell’indirizzo di scienze sociali, la società contemporanea complessa, impone pur nella specificità dei linguaggi, un’integrazione dei punti di vista. Si tratta di un processo che non fa parte della tradizione scolastica italiana e che, invece, i docenti di questo indirizzo hanno dovuto imparare, procedendo per assestamenti successivi di confronto continuo tra pratica e riflessione, tra esperienza e approfondimento teorico. I supporti teorici erano presenti già nel testo del 1977 sulle scienze sociali  e poi sono venuti nel tempo o sono stati scoperti un po’ alla volta, pur nella diversità delle loro prospettive, da Bruner [12] a Gardner, da Popper [13] a Foucault [14].
La progettazione integrata è un primo risultato, piuttosto che un punto di partenza, poiché la costruzione di aree di aggregazione richiede una progettazione e una revisione continua rispetto ai temi analizzati e ai processi cognitivi che mette in campo, richiede quindi un lento ‘apprendistato’ didattico.
La necessità di pensare le scienze sociali in modo integrato risponde a tre principali ordini di criteri:

Epistemologico. I confini tra le scienze sociali sono distinguibili, ma più forti sono ormai gli intrecci e gli sconfinamenti. I problemi che affrontano richiedono letture intrecciate, non solo tra loro, ma anche con la storia, la geografia, le letterature, la filosofia, la biologia. Si dice al proposito nel testo del ’77:

Com’ènoto i confini tra queste discipline tendono a diventare sempre più problematici, e i settori di ricerca che presentano oggi un interesse maggiore sono proprio quelli a cavallo tra discipline diverse. Più in generale, si deve rilevare che non è più possibile tracciare linee di demarcazione precise tra l’una e l’altra scienza sociale o differenziarle in base all’’oggetto’, poiché spesso i medesimi fenomeni sono studiati in contesti disciplinari diversi e non rientrano quindi nella sfera di competenza esclusiva di una singola disciplina. La distinzione tra le varie scienze sociali è soprattutto una distinzione di metodi e di punti di vista; e diventa una distinzione oggettiva soltanto sulla base dello specifico procedimento di elaborazione concettuale che esse applicano ai fenomeni studiati. (pp. 85-86) “Un insegnamento integrato di scienze sociali non può ovviamente prescindere dall’esistenza di una pluralità di discipline caratterizzate da un loro peculiare sviluppo e anche da impostazioni metodologiche differenti; tuttavia, lungi dal configurarsi come una semplice ‘somma’ di prospettive disciplinari, esso appare contraddistinto da uno sforzo di aggregazione dei contenuti delle varie discipline in vista delle esigenze proprie della formazione generale che la scuola secondaria è chiamata a impartire. (…) Sotto questo profilo un insegnamento integrato di scienze sociali sarà caratterizzato da un approccio pluridisciplinare (e inter-disciplinare), non già nel senso che esso possa o voglia prescindere dalla specificità dei metodi delle varie discipline, ma piuttosto nel senso che questi metodi dovranno essere impiegati in modo convergente e posti a raffronto nell’analisi dei problemi studiati ”(p. 85)

Un’avvertenza è sicuramente da tenere presente nella scelta delle aree di aggregazione: proprio per la necessità di sfruttare al massimo il tempo e per l’impiego di risorse che richiedono, è necessario che la scelta cada su temi ritenuti fondanti per le scienze sociali

Cognitivo. È preferibile presentare la rete organizzativa dei contenuti, la mappa degli intrecci, per offrire agli studenti appoggi e riferimenti.

Se questo criterio è quasi obbligato per le scienze sociali, rimane un modello di riferimento rilevante per la riforma di tutti i saperi per la scuola in generale, in quanto l’incontro fra interpretazioni diverse di uno stesso fenomeno rafforza l’apprendimento, perché parte dalla complessità di cui sono costituiti i fatti, i problemi, la realtà. Organizzare l’insegnamento per aree può risolvere tre questioni nodali dell’ attuale scuola secondaria:

  1. comprendere le nozioni-chiave delle discipline all’interno di un contesto di significato, di una mappa di riferimento, partendo dalla considerazioni di problemi concreti, di fenomeni autentici “e da questi risalire ai contesti disciplinari che forniscono una base adatta per il loro inquadramento disciplinare”. E non il contrario.
  2. obbligare i docenti a ripensare i saperi e a individuare le questioni essenziali che li distinguono, ma soprattutto a pensare le modalità più adatte a facilitare l’apprendimento dei diversi punti di vista che le scienze sociali offrono alla comprensione dei fenomeni.
  3. creare le condizioni per un apprendimento ‘negoziato’ in cui l’insegnante condivide con gli allievi fin dall’inizio il percorso da intraprendere, le tappe e i risultati da raggiungere e, con loro, si mette in relazione con altri saperi, fuori dal proprio specifico. Questo si può fare anche solo su una disciplina, ma è quasi obbligatorio su aree aggregate, in quanto devono essere a tutti chiari ed espliciti i collegamenti.

Didattico. I curricoli snelli e l’esiguo numero di ore riservate alle scienze sociali, se pensate singolarmente,  impongono, in particolare nel biennio, una trattazione per temi unificanti, per problemi, piuttosto che per discipline che, invece, trovano una trattazione più sistematica nel triennio. Questa scelta modifica il modo di lavorare degli insegnanti, degli allievi e la conduzione delle attività in classe. Richiede che si progetti in anticipo, si cerchino materiali, si individuino le diverse tappe, le verifiche e il tipo di prodotto finale. Questa impostazione per macro-aree consente anche di condurre gli allievi a momenti di meta-riflessione in cui verificare i processi in atto, riflettere sull’apprendimento personale e sul profitto della classe, e di poterlo fare con più docenti che, pure loro, sono coinvolti nel processo. Succede spesso che esperienze di apprendimento su aree, vengano meglio conservate in memoria e non abbandonate, come succede di frequente con tanti apprendimenti scolastici.

Come si diceva sopra, a questi esiti si giunge con gradualità e per assestamenti successivi, ma ciò è accaduto per molte realtà di Consigli di classe che hanno verificato nel tempo la tenuta di questo modello e lo hanno tradotto in pratica quotidiana.

Lo stage formativo: un ruolo strategico [15]
La presenza dello stage nel curricolo di scienze sociali si è imposta fin dall’inizio della sperimentazione come un segmento imprescindibile, dotato di forte significatività, sia per l’oggetto di studio –la società contemporanea complessa- sia per la ‘famiglia occupazionale’ a cui è rivolto, cioè professioni che si occupano di cura o di organizzazione o di sociale in senso lato.
Oggi si parla di stage per tutti e ciò è bene, tuttavia i modelli che circolano sono tra i più vari. Nell’indirizzo di scienze sociali sono stati dedicati a questa esperienza seminari, incontri di studio e pubblicazioni e le acquisizioni raggiunte sono ormai condivise da un largo numero di scuole. Si indicano di seguito alcune caratteristiche ‘forti’ che potrebbero rappresentare un modello di stage per tutti gli indirizzi.
Lo stage riveste un ruolo strategico perché calamita e sintetizza aspetti diversi e significativi del fare scuola e del fare formazione:

1. porta, dentro la scuola, l’esterno, tutto intero, con le sue articolazioni, contraddizioni, complessità, zone d’ombra, incertezze, con i suoi valori che vanno ben oltre la rappresentatività dei soggetti coinvolti. Lo stage diventa quindi l’occasione principale per una riflessione sul mondo sociale esterno, una riflessione fra soggetti in formazione, esperti di diversi settori –le famiglie occupazionali, appunto – e i docenti, fra le giovani generazioni e gli adulti competenti;

2. mette in campo risorse che attengono contemporaneamente alla sfera affettiva, cognitiva, culturale, consente di mettersi alla prova in una situazione di rischio controllato e quindi di risolvere problemi autentici e non fittizi come sono spesso quelli scolastici;

3. è innestato nel curricolo e porta a sintesi le operazioni costruite sui saperi a cui aggiunge la dimensione pratico-operativa e mette in gioco le conoscenze in settori della realtà sociale; 

4. riguarda quindi tutto il Consiglio di classe, tutta la classe e deve coinvolgere i genitori, ma anche il preside e il personale di segreteria;

5. ha come strumento principale di ricerca l’osservazione partecipante, la progettualità, la reciprocità tra saperi ed esperienza;

6. articola l’oggetto di studio in temi/percorsi che si misurano sulle emergenze o contraddizioni o fenomeni di cambiamento presenti nel territorio in cui si trova la scuola. Dalle esperienze fatte fino ad oggi emergono i seguenti ambiti:
- le trasformazioni nel modello produttivo;
- le emergenze ambientali;
- la trasformazione dei bisogni e le nuove modalità di risposta. Il nuovo Welfare;
- le nuove forme di comunicazione e la tecnica;
- le nuove marginalità e cittadinanza;
- il territorio, la sua cultura e la sua specificità;
- la globalizzazione: caratteri generali, il localismo, l’economia, la cultura;
- il potere, la politica, l’individuo;

7. è costruito per difficoltà crescenti e si ripete più volte nel quinquennio;

8. è pensato in un rapporto di co-educazione con le istituzioni del territorio: alla scuola rimane un ruolo eminentemente formativo e di decisione nelle scelte relative al curricolo e al contenuto dello stage, ma al pubblico può essere riconosciuto uno spazio su aspetti che riguardano la cittadinanza, i diritti e i doveri per la costruzione di significati condivisi nella gestione della cosa pubblica.

Queste caratteristiche o punti forti dello stage sono emersi progressivamente, ma in modo sempre più solido negli anni, in seguito a sperimentazioni e riflessioni condivise tra docenti, studenti, esperti esterni alla scuola e ispettori centrali, nonché teorici dell’alternanza studio-lavoro.

La reale costituzione di una comunità di pratiche
La riforma della amministrazione centrale e il decentramento organizzativo, il venir meno del finanziamento alle scuole-polo, che negli ultimi anni hanno costituito un punto di riferimento e di rielaborazione per gli istituti che hanno avviato indirizzi di scienze sociali e che ora sono quasi 300, tutti questi fattori rischiano di ridurre le singole scuole a terminali staccati, cioè di vanificare il grosso lavoro di elaborazione collettiva, costruito negli ultimi anni. Alcune scuole hanno percepito il rischio e, valorizzando l’istituto dell’autonomia, si sono costituite in rete per mantenere i legami sia tra docenti, sia con l’Università sia con il CSS. In questa fase è quindi di cruciale importanza mantenere aperta la collaborazione tra i diversi livelli per mettere a confronto le diverse prospettive su aspetti disciplinari, sull’applicazione in classe e sulla differente collocazione delle scienze sociali tra scuola e università, tra istruzione e contesti professionali.

CONCLUSIONE

Il Consiglio Italiano delle Scienze sociali ha deliberato di compiere – entro l’anno 2004 – una indagine a carattere nazionale sugli indirizzi di scienze sociali che hanno realizzato in questi anni l’impostazione di cui all’esposizione di Lucia Marchetti. L’indagine sarà prima avviata in forma etnografica sulle sperimentazioni “storiche” per poi rivolgersi a un campione rappresentativo della distribuzione regionale delle scuole, anche utilizzando questionari. Alla tematica e ai risultati dell’indagine, il CSS intende dedicare parte di una sua prossima pubblicazione.

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note            

[1] AA.VV. Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, Torino, Einaudi, 1977; AA.VV. L'insegnamento delle scienze sociali: dove, come, perchè, Torino, Loescher, 1978. Autori e autrice del primo erano: Guido Baglioni, Valerio Castronovo, Alessandro Cavalli, Raffaele Laporta, Clotilde Pontecorvo, Stefano Rodotà, Pietro Rossi, Benedetto Sajeva, Paolo Sylos Labini; del secondo: Luigi Firpo, Pietro Rossi, Alessandro Giordano, Marino Raicich, Ethel Serravalle Porzio, Michele Di Giesi, Enzo Bartocci, Savino Melillo.
[2] Su questo rinvio al mio contributo, Che significato hanno gli studi culturali in Italia?, consultabile in rete al sito www.culturalstudies.it.
[3] Cfr. I saggi raccolti nei due volumi a cura di Clotilde Pontecorvo, Concetti e conoscenza, Torino, Loescher, 1983, e in particolare il suo saggio Concettualizzazione e insegnamento, ivi, pp. 262-354, e Storia e processi di conoscenza, Torino, Loescher, 1983, il saggio di Hilda Girardet, Un curricolo di storia come costruzione di reti concettuali, ivi, pp.269-316.
[4] Cfr. AA.VV., Crisi della ragione, a cura di Aldo Gargani, Torino, Einaudi, 1979.
[5] Cfr. Clifford Geertz, Blurred genres. The Refiguration of Social Thought, in "American Scholar", n.2, Spring 1980, ripubblicato in ID. Local  Knowledge,   New York, Basic Books, 1983, pp.19-35.
[6] La traduzione italiana è stata pubblicata l'anno successivo dall'editore di Firenze, Hopefulmonster, 1987.
[8] Rinvio all'articolo citato nella nota 2 per maggiori chiarimenti e per la bibliografia relativa.
[9] Chicago, University of Chicago Press.
[10] Toronto, University of Toronto Press.
[11] Cfr. Immanuel Wallerstein, Anthropology, Sociology and Other Dubious Disciplines, in "Current Anthropology", n.4, agosto-ottobre 2003, pp.453-466. Wallerstein, autore nel 1991 di un testo importante sulla definizione delle scienze sociali - Unthinking Social Sciences: the limits of nineteenth-ecentury paradigms, Cambridge, Polity Press, 1991 - è stato a capo della commissione internazionale  Gulbenkian per la ristrutturazione delle scienze sociali, che qualche anno fa ha pubblicato un rapporto intitolato Open the Social Science, Stanford, Stanford University Press, 1995. Il titolo inglese, mantenuto anche nelle traduzione in spagnolo e in parte in quella francese, è stato in italiano reso con lo stupefacente Le scienze sociali: come sbarazzarcene; i limiti dei paradigmi ottocenteschi, Milano, il Saggiatore, 1995.   **
[12] J.Bruner, Un corso di studio sull’uomo in Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma 1967
[13] K.R.Popper, Previsione e profezia nelle scienze sociali in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972
[14] M.Foucault, Le scienze umane in Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967
[15] Marchetti L. (a cura di) Lo stage formativo nell’indirizzo di scienze sociali. Don’t worry!, MIUR e Liceo Classico “L.Ariosto”, Ferrara 2001

 

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